Franco Marrocco

BIOGRAFIA

Il connubio luce-spazio caratterizza fin dagli anni Settanta la ricerca pittorica di Franco Marrocco (Rocca d’Evandro, Caserta, 7.12.1956).

Il colore e la tela trovano come primo interlocutore la figura, le cui infinite potenzialità rappresentative si risolvono in un segno pittorico che soddisfa l’urgenza di stigmatizzare un’indagine sempre più segnatamente personale. Sono gli anni di Au rendez-vous des amis e di Davanti alla finestra , della personale presso il Centro dei Servizi Culturali di Cassino (1978) e della collettiva Premio Mazzacurati di Teramo (1979).

La consapevolezza del rapporto intrinseco tra rinnovamento artistico, sociale e politico si concretizza in nuove sperimentazioni: l’oggetto rappresentato viene scomposto e ricomposto con modalità quasi architettoniche dall’autore che, entrando nella tela, inizia a segnare, dividere, ordinare gli spazi e le profondità; a manomettere, attraverso nuovi flussi di luce, le posizioni simboliche degli oggetti, come nell’opera La cupola (1985/86). La tela diviene il terreno di rappresentazione di una figura scomposta e poi assemblata o addirittura riforgiata, pur nella memoria della sua vita precedente. Di questi anni la partecipazione alla XI Quadriennale di Roma; le personali presso la Chambre de Commerce Italienne pour la France di Parigi e il Palazzo dei Priori di Perugia; il XXXV Premio San Fedele presso il Centro Culturale San Fedele di Milano.

Sulla tela l’emozione trattenuta si svincola dalla costruzione formale: la luce esplode liberatoria frazionandosi in piume, scaglie, briciole di cosmo; si impossessa della sua compattezza primordiale; genera altre microscopiche potenzialità, senza però proporre coercizioni di forma.

Il colore si impone come potenza fecondatrice, e della figura non rimane che l’impronta mnemonica. Le dimensioni del supporto pittorico consentono all’operatore, oggetto oltre che soggetto di questa sperimentazione, di entrare nell’accadimento in maniera corporea, con una fisicità concreta. Emblematici L’eco della mia ansia del 1986, in cui testo e regia si saldano alla ricerca totalizzante del rappresentato, e La farfalla si posò sull’opera di Turner , del 1990-91, che sintetizza l’ulteriore passo evolutivo dell’artista.

Degli anni Novanta la personale OCDE di Parigi (1990) e la partecipazione alla mostra The Modernità of Lirism, promossa dall’Istituto Italiano di Cultura presso la Gummensons Kontgallery di Stoccolma e il finlandese Joensouu’s Art Museum (1991).

Le esplosioni fecondatrici degli anni appena trascorsi lasciano intravedere a volte come depositi, altre come nuove scansioni spaziali, delle forme riconducibili non a oggetti conosciuti e codificati, bensì alle loro esalazioni emozionali. Raggiunta attraverso la percezione luminosa, la conoscenza appare ormai priva di costrizioni formali e si traduce nell’espressione simulacrale della peculiarità dell’oggetto. La rivisitazione del conosciuto, che ne rende percettibile il sentire comune più profondo, appare evidente nelle tele Il vento e le pietre del 1991, Il fiore. Danzava Venere nel cerchio di Eros del 1993, Aritmie del 1996, in mostra al Palais d’Europe di Strasburgo (1994), alla XIII Quadriennale di Roma, alla Sala Polivalente del Parlamento Europeo di Bruxelles (1998), al 49° Premio Michetti di Francavilla al Mare.

Alla fine degli anni Novanta la ricerca di significato porta l’autore a calarsi nel magma primordiale delle profondità telluriche, in cui la luce sembra essere inghiottita dalla tenebra e l’abisso si connota come intima imperscrutabilità viscerale (Corpo a corpo del 1999), agghiacciante oscurità intersiderale (Velato del 1999), mistero ancestrale del mito (La palpebra del ciclope del 1997), profondità del sottosuolo (Caverna del 1999). La percezione emozionale della luce perviene alla profondità più assoluta, dalla quale incontenibili sentori luminosi traspaiono solo attraverso diafane cortine periferiche o affiorano per mezzo di bolle volitive con bagliori contenuti, che ammiccano però all’irrefrenabilità della luce. Questi moti verticali, percorsi in apnea verso il basso, preludono al percorso ascensionale degli anni successivi.

Dopo la buia gravità dell’abisso si avverte urgenza di leggerezza, il bisogno di respiro diviene impellente, e per soddisfare questa esigenza vitale l’approfondimento della ricerca cromatica assume un ruolo fondamentale. Il risultato di questo studio vede il colore depositarsi con toni appena accennati sui reperti del viaggio precedente, raccolti e conservati in teche essenziali, quali il segno geometrico di Alito (1999).

La fase successiva esprime la tensione verso l’alto con la liquida gamma dei blu oceanici e degli azzurri siderali, leggeri fino alla trasparenza. I titoli (Battiti d’ali del 1999 e Nubi di cristallo del 2000) sottolineano lo svincolarsi dal magnetismo abissale alla scoperta della verticalità percorsa sul vettore opposto. A testimoniare questa indagine sono le personali tenute nella Reggia di Caserta e a Villa Rufolo di Ravello.

La percorrenza implica una direzione praticabile, oltre che una meta perseguibile: cominciano quindi ad apparire sulla tela dei tracciati, dapprima probabili pentagrammi pronti ad accogliere note di una nuova lirica (Musicante del 2002), poi vestigia di antichi sentieri praticabili attraverso incandescenti spazi cosmici dove, se le atmosfere appaiono rarefatte ad arte, sono percepibili lontanissime stelle pungenti come aghi, che convivono confondendosi con il microcosmo di creature unicellulari, galleggianti su tinte infuocate (personale Blu tenutasi alla galleria Romberg di Latina del 2003).

La ricerca della rappresentazione di una fertilità cosmica e viscerale attraverso la possibile coincidenza micro-macro sfocia, alla fine del primo decennio del Duemila, nella divisione (o aggregazione?) del supporto pittorico: la tela si divide a formare due o più campi accostati; sulle traiettorie percorse compaiono tracce di un cammino tuttora in atto, i cui segni vengono individuati da più punti percettivi. Le creature che popolano l’opera sono visionabili contemporaneamente in positivo e in negativo, prima e dopo il gesto, di giorno e di notte, sopra e sotto, riflesse e materialmente reali. La ricomposizione del supporto frazionato, che lascia come applicazione innovativa l’evidenza della frattura, permette la pluralità percettiva di un’identica realtà biologica. Significative in tal senso sono le personali tenute al Palazzo Sternberg di Vienna (2009) e le collettive presso il Ve Pat Nedim Tor Muzesi di Istanbul e il Royal Museum di Pechino (2007).

Viene così partorito l’intero ciclo di opere costituenti l’ossatura de La foresta pietrificata. I lavori precedentemente catalogati documentano un’indagine ancora lontana dalla sua conclusione. Alla fine del primo decennio del secolo l’idea della strada percorsa diviene l’oggetto della ricerca. Raggiungere un obiettivo attraverso un’intuizione repentina, per fortunate coincidenze, per insperata concomitanza di sinergie mai cercate, cambia di sicuro la struttura, l’essenza e a volte il significato stesso dell’oggetto che ne costituisce la meta. Questo, perseguito attraverso una strada voluta, anche se spesso non programmata, assume valenze del tutto diverse, i cui rimandi pongono i presupposti della continuità concettuale del percorso. Da qui scaturisce l’essenza del racconto, che non è mai la definizione di un oggetto o di un accadimento, bensì la storia che ha portato al suo raggiungimento. Proponendoci alcune testimonianze cartacee, l’autore ci svela la sua maniera di raccontare.

I righi di probabili pentagrammi, le linee accennate, fendenti orizzontalmente la tela oppure diagonalmente sghembe, iniziano a diventare profili di orizzonti lontani, fusti di vegetali appartenenti a flore sconosciute o giunchi che si elevano da boschi e da acquitrini comodamente raggiungibili. Di tanto in tanto si scopre l’impronta lasciata da un bradipo sulla superficie umida di una foglia, o l’immagine, lei sola senza corpo né spessore, del manto malcelato di un felino o della muta di un rettile, intuiti attraverso un invisibile diaframma. Il suono attutisce l’immagine, tutto ciò che si muove è percepibile solo attraverso l’eco. Il simulacro prende parola per raccontare e raccontarsi.

Tra gli ultimi eventi espositivi la partecipazione alla In contrattempo - La pittura malgrado tutto tenutasi alla Galleria d’Arte Moderna di Cento, 2007; Segno del Novecento. Disegni italiani dal secondo futurismo agli anni 90, Museo dell’Alto Tavoliere, San Severo (FG), 2010; 54ª Biennale di Venezia; Territori del sud, Spazio Martadero di Cochabamba, Bolivia, 2012; Call For Papers, Istituto Italiano Cultura, Los Angeles (USA), 2014; 56° e 60° Premio Michetti di Francavilla al Mare, dove nel 2014 espone con una personale; Close-Up Palazzo Collicola-Arti Visive, Spoleto (PG), 2015; Tracce di contemporaneo. Collezione di Arte Italiana da Lucio Fontana alla contemporaneità, Palazzo Arese Borromeo, Cesano Maderno, 2015; The last last supper. Leonardo e l’Ultima Cena nell’arte contemporanea, tenutasi al Grattacielo Pirelli a Milano e a Villa Burba di Rho, 2015; Archeologie Van de Communicatie, Castello Orsini, Avezzano (AQ), 2016.

Franco Marrocco è Docente di Pittura all’Accademia di Belle Arti di Brera di Milano, di cui dal 2012 è Direttore.

 

Biografia a cura di Veronica Zanardi

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